La chimica è...

Chimica inside

La chimica delle impronte digitali

7 novembre 2022

Alzi la mano chi è cresciuto a pane e a puntate della Signora in Giallo, l’indimenticabile Angela Landsbury, da poco scomparsa. Immersi nei romanzi di Agatha Christie sulle orme dell’arguta Miss Marple o nei gialli di Simenon con il commissario Maigret o semplicemente seguendo le mille evoluzioni dei casi di cronaca, in tanti ci siamo improvvisati detective.

 

Ma qual è il primo indizio da non sottovalutare in una scena del crimine, a caccia del colpevole? Sicuramente le impronte digitali! Come si classificano e quali sono i metodi chimici per identificarle? Scopriamolo insieme!








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La chimica delle impronte digitali





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Cosa sono le impronte digitali

La tecnica della rilevazione delle impronte digitali, utilizzata per la prima volta nel 1905 da Scotland Yard in un caso di omicidio, è stata considerata fin da subito affidabile: caratteristiche peculiari di queste tracce, infatti, sono l’essere immutabili nel corso della vita di ogni individuo e uniche, in quanto proprie di una sola persona, anche nel caso dei gemelli.

 

Le impronte digitali sono costituite da un alternarsi di solchi e creste cutanee e possono assumere forme e figure di vario genere, classificandosi in tre modi differenti: visibili, modellate e latenti. Quelle visibili sono identificabili a occhio nudo e determinabili grazie al contatto con oggetti impolverati, residui di sangue o inchiostro, e da una mano sporca: in questi casi basta fotografare l’impronta e confrontarla con altre.

 

Le impronte modellate sono anch’esse definibili a occhio nudo e si rilevano se lasciate su oggetti in cera, argilla o colla con l’aiuto di una semplice fotografia.

 

Il vero problema è rappresentato dalle impronte latenti, che si formano per effetto della sudorazione o degli oli naturali: non essendo visibili a occhio nudo sono le più difficili da rintracciare. Nonostante rimangano sulla superficie, non possono essere viste, a meno che non ci si aiuti con tecniche chimiche che ce le rivelano!





La “spolveratura delle impronte digitali”

A seconda del tipo di impronta, è anzitutto importante capire il metodo più opportuno per evidenziarle: ottico, fisico, chimico o una sequenza logica tra queste tecniche.





La spolveratura è una pratica che risale al 1891 e consiste nell’’adsorbimento’ di una polvere di particelle fini sulle sostanze presenti nelle impronte digitali, quali umidità e oli naturali. Questa polvere, particolarmente adatta per essere utilizzata su superfici opache come plastica, vetro, ceramica e altri materiali sintetici, è costituita sia da una miscela di pigmenti quali carbonio sotto forma di grafite, alluminio, zinco, rame, sia da un legante come gomma arabica, colofonia o polvere di ferro. Il pigmento contribuisce a creare contrasto, mentre il legante aiuta la polvere ad aderire all’impronta.

 

Le impronte, spolverate con un idoneo pennello morbido, possono essere poi fotografate e rimosse con il nastro adesivo. Oltre alle polveri nere standard, possono essere utilizzate anche polveri fluorescenti, che diventano tali in presenza di determinati colori.

 

In alternativa alle polveri era utilizzata una sospensione contenente ossido di ferro, che però risultava poco adatto per impronte lasciate su superfici non porose ed è stato perciò superato da una sospensione di violetto di genziana di colore verde e, più recentemente, da biossido di titanio, di colore bianco.





Metodi chimici di rilevamento

Sono tanti i metodi chimici che permettono di rilevare le impronte digitali: alcuni permettono che le impronte assumano una colorazione particolare, altri utilizzano la fluorescenza.

 

Nel 1910 un chimico tedesco ottenne dalla reazione tra ninidrina e amminoacidi un nuovo composto di colore viola, detto porpora di Ruhemann, dal nome del suo inventore. Il sudore, che si deposita sugli oggetti, contiene circa 250 nanogrammi di amminoacidi per ogni impronta. La ninidrina, se spruzzata sulla superficie, reagisce con gli amminoacidi producendo il sale di ammonio della porpora di Ruhemann. L’acqua è un reagente necessario per questa trasformazione, quindi la reazione deve avvenire in un ambiente ad alta umidità. La sostanza si degrada in presenza di luce e ossigeno e per questo è necessario fotografare l’immagine di interesse; infine, per farla diventare fluorescente, l’impronta deve essere trattata con cloruro di zinco.

 

La ninidrina non è l’unico composto che reagisce con gli amminoacidi delle impronte digitali. L’1,8-diazafluoren-9-one, conosciuto come DFO, reagisce con gli amminoacidi dell’impronta producendo un composto rosso-rosato simile alla porpora di Ruhemann, che dieventa però anche fluorescente se illuminato da una luce di lunghezza d’onda tra il blu e il verde.

 

Un altro metodo che serve per identificare le impronte digitali latenti è il tetrossido di rutenio: i grassi nell’impronta digitale trasformano il tetrossido di rutenio in diossido di rutenio nero-marrone, rendendole visibili. Per l’identificazione delle impronte su superfici non porose e in particolare su resine polimeriche come fogli di polietilene e di plastica in genere, possono essere utilizzati anche i cianoacrilati, tipiche molecole utilizzate negli adesivi.

 

Tanti sono i metodi chimici messi in campo per dare visibilità alle tracce diversamente non visibili… sapevate che anche improvvisarsi Sherlock Holmes è questione di chimica?

 





Fonti:

https://www.compoundchem.com/2016/07/26/fingerprints/

https://www.compoundchem.com/2019/07/13/iypt044-ruthenium/